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Il titolo programmatico dell’opera rende manifesta l’opposizione, sempre presente nella poesia di Francesco Palmieri, tra certezza del dolore, necessità, espressa da immagini come “il cerchio che ti stringe”, “sabbia frenante e retrorazzo”, “l’ingombro della carne” ed evasione, tra determinismo e miracolo laico, improbabile ma che esercita la sua attrazione costante sull’uomo.

È evidente l’interazione fra poesia e filosofia, l’atteggiamento escatologico che investe la funzione del poeta nella società attuale e che indaga la storia, il progresso, la vanità del tutto che va osservato, descritto, raccontato.
Attraverso l’utilizzo di una puntualità lessicale talvolta al limite del tecnicismo, emergono gli altri motivi della poesia di Palmieri: l’amore sotto forma di fantasmi che popolano i pensieri e che provocano intermittenze vive, dato che il pensiero talvolta ha consistenza di carne, il dolore, il male di vivere, condizione esistenziale che lo colloca in quel filone della lirica europea del negativo che giunge fino a Leopardi, Baudelaire, Beckett, Montale. La salvezza consiste in pochi attimi rivelatori, apparizioni fulminee, approdi momentanei, il miracolo laico di cui si parlava all’inizio, nonostante il precipitare della parabola umana. Anche il mondo descritto non vale solo per se stesso, per la sua fisica oggettività ma perché scenario di una sacra rappresentazione dell’anima, per la volontà intrinseca di porsi oltre l’udibile e donare un frammento di sè. Ed ecco che la poesia permette di esprimere l’indicibile, affidandolo alla parola che, almeno in parte, si rivela.
La scrittura infatti è preziosa ed elaborata in alcuni passaggi, intima e colloquiale, vibrante e appassionata in altri.
Alla consapevolezza del “male di vivere”, che proviene dalla stessa matrice del pensiero leopardiano, se ne può accostare un’altra riconducibile a Schopenhauer, relativa alla rappresentazione del mondo come fascino ingannevole. Compare anche qualche fermento cristiano, una religiosità latente e inquieta che è possibile rinvenire in titoli come Personali apocalissi, Educazione metafisica, Apocalisse minima o in espressioni come “bagliore di damasco”, “calice e fiele” e tante altre, mutuate dalla tradizione cristiana.
L’oggetto del tu, l’interlocutore di montaliana memoria lo si può identificare con il lettore, che entra nel libro e ne resta coinvolto. Testi come Realismo immagico, Ai poeti metafisici o Il gioco della verità non possono non ricordare il Montale di Non chiederci la parola o de I limoni.
Leggere Francesco Palmieri infatti è un ritrovarsi continuo in ricordi e in situazioni sperimentate, in reminiscenze dotte divenute esperienze vissute, bagaglio culturale del lettore medio, in sogni “fra firmamento e cielo” che a fatica si mantengono reali nella cronologia del quotidiano. Il sentimento dell’attesa però resta deluso perché nonostante i cambi di stagione, si vive al presente, in un’alienante condizione di “nientenulla”, in una realtà fatta solo di silenzio, solitudine e clausura. Nonostante le premesse degli “anni scivolati in acqua” e le promesse di voli, di mare e di cielo, la stagione ricorrente per il poeta, interprete di una parabola umana comune a noi tutti, è l’inverno. È sconfortante giungere alla consapevolezza che si nasce per le stelle, con “l’infinito intorno”, dotati dell’invulnerabilità propria degli dei e poi “si muore in una cella”, arricchiti solo di esperienze e conoscenze che si sedimentano e che contribuiscono alla nostra formazione ma che non ci proteggono dalla sofferenza. Nonostante ciascuno di noi abbia sogni e ambizioni, passioni accese, ideali e volontà incomplete in tasca, siamo giocoforza sottoposti al dolore anche se, essendo nati dall’incontro di acqua e terra, tra la riva e il mare, eravamo destinati ad essere felici e quando una gioia ci viene data, dura sempre solo il tempo di un attimo. Al poeta e all’uomo resta la consolazione del ricordo, “il giallo di limoni” che di nuovo riporta alla mente Montale oppure quel “riposo di ulivi” di cui Ulisse non fruisce o ancora quel “respiro degli ulivi” che spesso l’autore, residente a Milano, evoca, in contrapposizione alle polveri sottili, per ricordare il passato e la giovinezza trascorsi in Puglia (e non sembra un caso che l’opera sia edita da Terra d’Ulivi). Dal punto di vista formale si ha complessità del gioco di rime, il loro mascheramento in assonanze, consonanze, anafore. È da rilevare, anche in virtù della comunicabilità e dicibilità della poesia di Palmieri, l’apertura metrico-stilistica verso la prosa, verso un classicismo vicino a quello di grandi innovatori come Valéry, Eliot, Geraldy, Laforgue, i simbolisti francesi. Il ritmo si snoda sotto parole disadorne ma sempre sorvegliate e sembra riprodurre il movimento sinuoso del pensiero. Alla speculazione gnoseologica si affianca la ricerca di musicalità nella scelta lessicale più appropriata, nei costrutti in cui spesso emergono lessemi riconducibili allo stesso campo semantico o espressioni come inestinto urlo che non tace, è paralisi il silenzio, sia urlo il morire/non silenzio il dolore. Anche la mitologia, richiamata più volte, esercita il suo fascino e diviene metafora esistenziale nella figura di Ulisse, desideroso di scoprire altri mondi o degli dei emissari del divino che si credeva un tempo camminassero tra noi. La condizione terrena appare potenzialmente immensa mentre in realtà é solo una voliera per noi uomini che vi compiamo brevi balzi. Talvolta si rinuncia all’avere, alla conoscenza data dai sensi per diventare creature eteree, del cielo, simili agli angeli solo nelle vesti, simili ai beati e agli estinti. Creature dotate solo ed esclusivamente di pensiero. Ma a volte è proprio il pensiero ad annientare l’uomo. La natura ci fornisce le illusioni, la ragione le distrugge. La desolazione deriva dalla conoscenza del vero, dalla consapevolezza di un destino di caducità che accomuna tutti gli uomini. In questo senso è da cogliere la radice eroica di una poesia che a prima vista potrebbe sembrare nichilista, non a caso la poesia registra la drammaticità del reale e dei rapporti.
L’esistenza è ridotta a poco, già “nascere / è entrare nel morire”, il mondo non ha più fascino nè colore, i prodigi non accadono più, si é qui a subire il tormento dell’altrove, l’amarezza del disinganno, “un altro giorno che finisce”, la consapevolezza di essere “fragile carne / vestita d’immenso”. Colpisce la capacità di rinuncia che però non è rassegnazione semmai non-partecipazione, intesa come rifiuto di accettare ciò che è imposto dall’alto, dalle circostanze, dalla natura delle cose, la possibilità di ricavare un senso dalla realtà e di affidare alla poesia, voce interferente, il miracolo di attribuire una ragione alla vita. Dar testimonianza, lottare contro il nulla che ci spazzerà via, diceva Julio Cortàzar. E così “è già vita / il detto dei tuoi sensi”, scrive il poeta, né si esaurisce il vizio di vivere, “di bussare a porte / che vuoi vedere azzurre”, perché, nonostante tutto, di un cielo spogliato resta solo la poesia che, per nostra fortuna, permette di “vendicarsi del niente”.

Deborah Mega